Poi magari, tra altri cento anni, capiremo meglio qual è la formula magica che lo ha fatto arrivare fino a qui. È partito alle 2.53 del 13 maggio 1909 da Milano e non si ferma mai. Il Giro d’Italia che scatta sabato dal Lido di Venezia e arriva a Roma domenica 31 è sulla breccia da un secolo: completamente diverso da quello dei pionieri eppure sempre uguale nella sostanza, intesa come essenza però, non come additivo chimico. Un’essenza che il Giro lascia ancora dietro di sé nell’aria come una scia, lunga quasi trecentotrentamila chilometri e capace di seminare centinaia di storie, cresciute nell’immaginario di un Paese intero.
Coppi, Ronconi e Bartali al giro d'Italia 1940 (Rcs)
Piccole grandi epopee, farse tristi o favole lievi a cui, nonostante tutto, a volte è bello ancora credere, per farsi un po’ di compagnia su una strada ricca di salite e di sorprese. Dal primo vincitore, il muratore Ganna, all’ultimo, lo spagnolo Contador che sale sul podio con il blackberry in tasca, il Giro ha lanciato decine di protagonisti e qualche icona di prima grandezza. C’erano una volta i padri della patria ciclistica, Ganna appunto, con Girardengo, Binda e Guerra. Poi però con il boom di questo sport, inserito in un contesto storico irripetibile, sono arrivati i padri della patria anche in senso stretto: Fausto Coppi e Gino Bartali. A volte sembra quasi che il Giro si sia fermato lì, a contemplare i suoi due figli prediletti, come prigioniero di un passato irripetibile fatto di battaglie su strade sterrate, di entrate coraggiose a Trieste (1946), di telefonate politiche (De Gasperi a Bartali dopo l’attentato a Togliatti nel ’48) e di una morte assurda, come quella di Fausto all’alba degli anni 60. Gli anni di un altro boom, quello economico del Paese, hanno riempito le strade di macchine e moto. La bicicletta però si è destreggiata ancora alla grande, legata com’era (e in parte è ancora) a chi è abituato così tanto alla fatica da farne un mestiere o un passatempo.
Motta e Gimondi al Giro 1966 (Olympia)
Al Giro, le sfide accese dai nostri, Gimondi e Motta su tutti, contro una macchina umana come Eddy Merckx, hanno arricchito di nuovo l’immaginario di un’epoca. L’ultimo grande duello è arrivato qualche anno dopo ed è stato quello tra Moser e Saronni all’inizio degli anni 80. In seguito solo il dominio di Bugno (ultimo a rimanere in rosa dall’inizio alla fine nel ’90) e il maestoso incedere di Indurain (ultimo invece a fare la doppietta, ’92 e ’93) hanno trovato spazio in una memoria condivisa da tutti, al di là del tifo o della nazionalità. Poi qualcosa è cambiato, anno dopo anno. Per dire: all’alba dei primi giri i corridori venivano fotografati uno per volta, per essere riconosciuti lungo il cammino ed evitare inganni. Oggi non avrebbe più molto senso, perché alcuni dei protagonisti hanno una doppia faccia, stravolta da un altro boom senza fine, quella di una farmacia rampante quanto deprimente. È vero: il popolo del ciclismo, anche quello reso immortale dalle foto virate seppia, ha sempre messo l’arte di arrangiarsi davanti a tutto. Per chi vive sulla strada in fondo è più facile che per gli altri e così, dalle «bombe» di un tempo agli stimolanti trovati dopo l’introduzione dei controlli antidoping nel 1968, fino alla sbornia di Epo degli anni 90, molti, tra campioni e figuranti, hanno abbassato la testa per un attimo più o meno lungo.
Pantani prelevato a Campiglio dai carabinieri nel 1999 (Reuters)
Alcuni di loro non hanno più saputo rialzarsi: nell’anno del Centenario, ricorre anche il decennale dell’inizio della caduta di Marco Pantani. Per il Giro, nato in piena febbre futurista, il problema degli ultimi anni è un’altra malattia che logora il ciclismo da troppo tempo ed è aggravata dalla modernità incalzante: la febbre del doping e la grande rimonta dell’antidoping racchiudono oggi la sfida meno visibile eppure più importante. Medici preparatori con il pallino dei farmaci proibiti e laboratori sempre più evoluti grazie a un business dei controlli in crescita esponenziale, influiscono in maniera massiccia sugli ordini d’arrivo. È paradossale dirlo oggi, in cui si è perso il conto degli scandali e il numero dei corridori fermati è imbarazzante, ma il virus del doping, a forza di bastonate, si è indebolito rispetto allo scorso decennio. Non morirà mai, questo purtroppo è certo, ma gli anni del far west sono alle spalle: oggi al Giro si corre solo con il passaporto in regola, ovvero con i giusti parametri sanguigni, biologici ed endocrinologi. I falsari non sono spariti, ma hanno la vita meno facile di un tempo e chi cade nella rete dell’antidoping non può più nascondersi dietro al «così fan tutti» sempre duro a morire. Il Giro del centenario sarà anche la corsa di Lance Armstrong, l’uomo che più di tutti incarna le sfide vinte ma anche le complesse inquietudini dell’ultima era ciclistica. Da Venezia a Roma non sarà una vacanza, nemmeno per lui: però questo sport, sempre sospeso tra il mito della fatica e la ricerca ossessiva del limite, due concetti sublimati dalle grandi salite, potrebbe regalarsi anche un sorriso e un po’ di gioia. Come regalo per i primi cento anni del Giro non sarebbe male.
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